vaghezza di secondo ordine
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Revista Observaciones Filosóficas


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art of articleart of articleSinechismo e vaghezza di secondo ordine

Dr. Marco Annoni - Università di Pisa
Resumen
El presente trabajo ofrece una revisión de la lógica clásica, del "principio de no contradicción" que durante siglos tiranizó el pensamiento de occidente bajo la fórmula de los "primeros principios de la razón" introducida por el organon aristotélico. Se analiza y cuestiona el principio de tercero excluido, así como la validez de las lógicas bivalentes, esto es de la dicotomía verdadero-falso, para adentrarse en una rigurosa y formalizada indagación en la lógica tricotómica con particular atención al sistema peirceano.

Palabras clave
Lógica, paradojas, contradicción, principios, valor de verdad, Peirce

Il problema della vaghezza di secondo ordine è una delle difficoltà teoriche più rilevanti per la fondazione di una logica a più valori. Questo perchè tale obiezione svuota apparentemente di senso ogni tentativo di abbandonare il quadro di riferimento offerto dalla logica classica: la dicotomia vero/falso, i principi di non contraddizione (PNC), terzo escluso (PTE) e bivalenza (PB). Si consideri la seguente proposizione: “Quando Ulisse è morto?”. Vi sono, generalmente, due possibili modi di considerare la questione. Il primo consiste nel ritenere il passaggio dalla vita alla morte come un passaggio netto: ad uno stato di vita ne segue immediatamente uno di morte. Questa è la visione della logica classica. Il secondo modo consiste invece nel ritenere che tra lo stato di sonno e quello di veglia vi sia uno stato intermedio nel quale Ulisse non è né chiaramente vivo né chiaramente morto. Questa è la visione di una ipotetica logica a tre valori (vero, falso, intermedio), la quale per lo stato mediano considera violati o sospesi i principi di non contraddizione, terzo escluso e bivalenza. Secondo questa impotazione “vivo” è un predicato vago perchè ammette casi limite; sfortunatamente però i confini di ciò che è vago si dimostrano essere vaghi a loro volta. A qualche momento nel passaggio tra la vita e la morte non è infatti chiaro se Ulisse sia vivo oppure no; a tale stato viene dunque assegnato un valore intermedio tra la vita e la morte. Il problema è che la stessa operazione può nuovamente essere ripetuta anche quando si ammettono tre valori. La domanda “Quando Ulisse è morto?” presenta le stesse difficoltà della domanda “Quando Ulisse è chiaramente morto?”. A qualche momento del passaggio tra lo stato di vita e quello intermedio non è chiaro se Ulisse sia in uno oppure nell’altro. Se ammettiamo che non esista un passaggio netto tra “vita” e “morte” e poniamo un terzo termine tra i due estremi, allora siamo poi costretti a ritenere che non ci sia nemmeno un passaggio netto tra la vita, lo stato intermedio e la morte. Ponendo una regione vaga intermedia, otteniamo due altri confini vaghi: tra la vita è lo stato neutro e tra lo stato neutro e la morte. Da una vaghezza di primo ordine passiamo così a rimandare il problema ad una vaghezza di secondo ordine. Il regresso, oltretutto, può essere condotto all’infinito. Si passa così da una dinamica di vaghezza di secondo ordine ad una dinamica di vaghezza di ordine superiore che può essere ripetuta ad infinitum. La classica obiezione ad una prospettiva logica a più valori di verità è allora che: “if two values are not enough, three are not enough” (Williamson 1994, p.111). La dinamica della vaghezza di ordine superiore rappresenta una seria sfida per ogni tentativo di costruire una logica che prevede tre valori o più di verità, perchè ne mina le motivazioni teoriche di base. Che bisogno c’è di abbandonare la logica classica, con la sua forza e la sua semplicità, se le alternative a più valori non fanno altro che ripresentare le stesse mancanze che imputavano alla prima?

Il proposito di questa relazione è di dimostrare che esite almeno un caso di logica a tre valori di verità per la quale la dinamica della vaghezza di ordine superiore non è applicabile.

Questa tesi verrà sostenuta facendo riferimento al particolare sistema di logica triadica elaborato da da Charles Sanders Peirce ed al suo principio di continuità: il sinechismo. Peirce è stato uno dei più grandi ed originali pensatori e logici di tutto il ‘900 e, tra le altre cose, anche il primo a proporre un compiuto sistema di logica tricotomica. Compiuto perchè i sei operatori e le matrici per essi definite sono sufficienti per costruire un sistema funzionalmente completo per tre valori. Come notano Fish e Turquette, questi sei operatori sono poi stati tutti riscoperti da altri logici posteriori, ed il lavoro di Peirce deve essere considerato come un’anticipazione delle logiche a tre valori poi elaborate da Jan Łukasiewicz ed Emil Post negli anni 1920.1 A differenza però di tutti gli altri calcoli tricotomici, quello di Peirce si distingue per il proprio carattere teoretico. Esso rappresenta infatti un tentativo di trasferire in sede di calcolo il complesso di risultati teorici che il pensatore americano aveva precedentemente conseguito in tutti gli altri campi di ricerca a cui aveva dedicato la propria attenzione. Il sistema peirceano è infatti un sistema altamente articolato e complesso che, mediante l’applicazione di una base teoretica logicamente fondata, mira a produrre una teoria unitaria capace di spaziare dalla matematica fino alla metafisica. Questa base teoretica coincide in Peirce con la centralità assegnata alla relazione triadica a base continua. La logica tricotomica che possiamo ritrovare nel Logical Notebook datato 1909 rappresenta proprio un tentativo di trasferire questa stessa base teoretica in sede di calcolo. La centralità della relazione triadica a base continua si era infatti presentata con forza in tutti gli altri settori di ricerca (faneroscopia, semiotica, epistemologia, cosmologia, ecc...), mentre la logica rimaneva invece asimmetricamente confinata alla dicotomia vero/falso. In più, le ricerche matematiche, a cui Peirce si era lungamente dedicato, mostravano con evidenza la possibilità di una matematica tricotomica, la quale suggeriva a sua volta la possibilità di una prospettiva logica simile, modellata su tre valori. Più in particolare, il calcolo tricotomico può essere visto come una conseguenza del realismo logico di Peirce, per il quale accanto all’attualità (have beens, is’s, will be’s) devono essere considerate altrettanto reali anche le possibilità (can be) ed i generali (would be) (cfr. CP 8.216). Il problema della logica classica è che, secondo Peirce, essa si dimostra universalmente valida solo per analizzare quegli universi dove si trovano solo attualità, cioè singoli oggetti pienamente determinati, mentre è per lo più inadatta a trattare “potentialities, real possibilities, universals or any other general”.2 Peirce ritiene infatti, in netta opposizione con una visione epistemica o semantica della vaghezza, che vi sono entità reali oggettivamente indeterminate che non possono essere processate adeguatamente da un sistema di logica classica.

Per poter comprendere la particolare posizione di Peirce è necessario ricorrere a due serie di considerazioni. La prima è derivata dai teoremi che Peirce ha dimostrato in sede di logica dei relativi, mentre la seconda emerge dalle riflessioni matematiche che Peirce ha svolto circa il tema del continuo. In base ad esse sarà possibile far emergere il rationale del calcolo tricotomico elaborato dal pensatore americano. Lo scopo è vedere se la differenza teoretica che contraddistingue l’impostazione di Peirce si traduce anche in una differenza pratica che permette di evitare l’obiezione della vaghezza di secondo ordine.

Cominciamo dunque con l’esaminare i teroemi che troviamo in sede di logica dei relativi, di cui Peirce, accanto a De Morgan, è stato uno dei pionieri; il loro scopo è dimostrare la generativa centralità della relazione triadica:

- Ogni relazione superiore a tre termini può essere ricondotta a combinazioni di triadi;

- Ogni relazione triadica non può essere ridotta a combinazioni di relazioni monadiche e diadiche;

- Relazioni monadiche e diadiche possono essere generate solo a partire da relazioni triadiche (cfr. CP 3.483, corsivo mio).

Questi tre punti possono essere riassunti mediante un unico principio: la triade è il relativo primo. La triade è generativa ed al contempo irriducibile: ogni relazione può essere generata a partire da relazioni triadiche o per intersezione (relazioni a quattro o più termini) o per prescissione (relazioni diadiche e monadiche), ma non si possono generare triadi a partire dalla composizione di relazioni monadiche e diadiche. La centralità della relazione triadica non si limita ovviamente solo all’ambito logico; essa ha solo il merito di dimostrare in sede formale quello che le analisi fenomenologiche, semiotiche e gnoseologiche avevano in precedenza già chiaramente indicato. A livello faneroscopico, ad esempio, questa impostazione si declina nelle tre concezioni di primo, secondo e terzo, più avanti definite come categorie di primità, secondità e terzità:

Tre concezioni si incontrano a pié sospinto in ogni teoria logica, e nei sistemi meglio elaborati esse ricorrono in connessione l’una con l’altra [...]. Io le chiamo concezioni di Primo, Secondo e Terzo. Il primo è la concezione di essere o esistere indipendentemente da qualsiasi altra cosa. Il Secondo è la concezione di essere in rapporto con – o relazione con – qualche altra cosa. Il terzo è la concezione di mediazione, mediante la quale un primo e un secondo sono messi in relazione (CP 6.33).

Tra le tre categorie, è in particolare la terza quella che maggiormente segna la differenza tra la filosofia di Peirce ed il pragmatismo di Dewej e James o, a livello semotico, tra la triadicità della relazione segnica peirceana e la diadicità della prospettiva soussurriana. La terzità è la categoria della mediazione, della rappresentazione, la funzione di collegamento tra un primo ed un secondo, ma è anche la categoria propria della legge, del pensiero, degli abiti; la principale responsabile del progredire dell’uniformità nel cosmo. Cosa per noi ancora più fondamentale, la terzità è la categoria della regolarita, dell’omogeneità e della relazione; è la categoria della continuità: “thirdness represents continuity almost to perfection” (CP 1.337).

Questo è un punto fondamentale, perchè è proprio dall’unione tra il concetto di terzità ed il concetto di continuità che emerge il quadro teorico che porta poi Peirce a concepire il suo sistema di logica tricotomica. Vale dunque la pena di soffermarsi sulla teoria peirceana del continuo, mettendone in luce alcune caratteristiche attraverso la definizione di continuità che Peirce ha raggiunto in sede matematica.

Nei primi anni ’90, l’interesse di Peirce per il tema del continuo cresce fino a divenire centrale. La sua riflessione si muove in questi anni essenzialmente attorno a due coordinate: la prima è quella cosmologica mente la seconda è quella matematica. Entrambe queste due direzioni teoriche approdano alla stessa conclusione: la dottrina della continuità triadica, da qui in poi definita come sinechismo (dal greco suneché, continuità), deve essere ritenuta come “the leading conception of science” (CP 1.62), “the supreme guide in framing philosophical hypotheses” (CP 6.101).

In ambito matematico, Peirce si inserisce nel dibattito a lui contemporaneo che, grazie alle teorie avanzate da Dedekind e Cantor, aveva posto le definizione di continuità ed infinità come uno dei compiti di importanza primaria per completare quel processo, allora ancora in corso, che mirava a riconsiderare i fondamenti stessi della matematica. Sarà grazie al confronto con gli scritti cantoriani che Peirce giungerà infine ad un concetto di continuo profondamente innovativo e per molti aspetti diverso da quello elaborato dal matematico tedesco. Cantor definisce una serie continua come una serie “concatenata e perfetta: “by a concateanted series, he means such a one that if any two poins are ginven in it, and any finite distance, however small, it is possible to proceed from the first point to the second through a succession of points of the series each at a distance, from the preceding one, less than the given distance. [...] By a perfect series, he means one which contains every point such that there is no distance so small that this point has not an infinity of points of the series within that distance of it” (CP 6.121). Nel modello cantoriano la continuità è rappresentata dalla corrispondenza biunivoca tra un insieme di punti-individuali e l’insieme dei numeri reali. In breve, se si immagina una retta, è possibile far corrispondere ad ogni punto su di essa un numero reale e viceversa. Questo metodo ha la notevole proprietà che permette di individuare con precisone il posto occupato da ogni singolo punto. Questa qualità, tuttavia, ha un prezzo. Da dove deriva infatti la continuità della retta? La risposta cantoriana è sotanzialmente controintuitiva: la continuità della retta deriva dall’ammassarsi di una serie transfinita di punti individuali i quali saturano ogni possibile spazio. Entità individuali, adimensionali e discrete, producono perciò il continuo dimensionale della retta con la quale però non condividono nessuna caratteristica essenziale.

A questa visione Peirce oppone una visione della continuità profondamente diversa. Nello scritto The Continuum (CP 8.164), Peirce definisce la continuità come congiunzione di proprietà kantiana ed aristotelica. La proprietà kantiana asserisce che in ogni continuo è composto di parti dello stesso tipo mentre la proprietà aristotelica asserisce che in un continuo le parti hanno il proprio limite in comune. La differenza risiede perciò nel fatto che il continuo cantoriano è composto da individui-punti discreti mentre il modello peirceano non possiede nessuna parte semplice ed individuale; ogni parte di continuo è un continuo a sua volta. Ogni linea per Peirce è composta di linee, ogni intervallo temporale di altri intervalli temporali e così via. Nessun sistema numerico può così mai esaurire il continuo, perchè “the numbers are insufficient for exactitude” (NEM 3126-127); essi costituiscono sempre una collezione discreta di elementi a prescindere dalla loro moltitudine. I numeri reali tendono così per Peirce ad essere un modello di pseudo-continuità alla quale si contrappone la vera continuità nella quale non esiste alcuna parte individuale e determinata, ma ogni parte perde la propria individualità per fondersi con le altre:

You have then so crowded the field of possibility that the units of that aggregate lose their individual identity: It ceases to be a collection because it is now a continuum. […] A Truly continuous line upon which there is room for any multitude of points whatsoever. Then the multitude or what corresponds to multitude of possible points, -exceeds all multitude. These points are pure possibilities. […] On a continuous line there are not really any points at all (CP 3. 388).

The result is that we have altogether eliminated points. […] There are no points in such a line; there is no exact boundary between any parts. […] There is no flow in an instant. Hence, the present is not an instant. […] When the scale of number, rational and irrational, is applied to a line, the numbers are insufficient for exactitude; and it is intrinsically doubtful precisely where each number is placed. But the environs of each number is called a point. Thus, a point is the hazily outlined part of the line whereon is placed a single number. When we say is placed, we mean would be placed, could the placing of the numbers be made as precise as the nature of numbers permits (NEM 3126-127).

La questione, a ben vedere, è genetica. Per Cantor la continuità della retta emerge dall’addensarsi di punti individuali e discreti, per Pierce la vera continuità possiede invece i caratteri della triade prima definiti in sede di logica dei relativi. Esattamente come la triade, il continuo peirceano è sintetico e generativo; ogni effetto di discetizzazione può avvenire solo come effetto secondario a partire da una continuità originaria. Il continuo oltretutto è irriducibile al discreto: nessuna collezione di individui discreti può mai generare una continuità, esattamente come prima non era possibile generare relazioni triadiche a partire da relazioni monadiche o diadiche; “ breaking grains of sand more and more will only make the sand more broken. It will not weld the grains into unbroken continuity” (Century dictionary). Per Cantor dunque, i punti in un continuo sono attuali, determinati ed esistenti, per Peirce sono invece potenziali, indeterminati e reali. La differenza non è solo terminologica, quanto propriamente logica. Ai “punti” in un continuo periceano, essendo potenziali e non attuali, reali ma non esitenti, non si possono infatti applicare i principi della logica classica di non contraddizione e terzo escluso. Questo perchè nell’ottica peirceana tali principi sono validi solo quando andiamo ad applicarli a degli individui pienamente determinati: “gli individui devono essere considerati come determinati sotto ogni rispetto, in maniera tale che il principio del terzo escluso vi si applichi sempre” (NEM III: 763). Ma un individuo determinato in un vero continuo è solo un’astrazione reale e non esitente; per esitere come tale, la continuità deve essere attualmente interrotta. “Hence a point or indivisible place really does not exist unless there actually be something there to mark it, which, if there is, interrupts the continuity” (Century dictionary).

Se la caratteristica propria dell’attualità (secondità) è la determinazione, a livello logico i suoi opposti sono invece rappresentati dalla vaghezza (primità) e dalla generalità (terzità), entrambe considerate come forme di indeterminazione. Ma cosa differenzia nella prospettiva logica di Peirce vaghezza e generalità?. Per rispondere a questa domanda è utile ricorrere ad un articolo che Peirce ha scritto nel 1905 dal titolo Issues of Pragmatism (CP 5.438), e seguire l’analisi che di questi temi ha fornito Robert Lane:

The general may be defined as that to which the principle of excluded middle does not apply. A triangle in general is not isosceles nor equilateral; nor is a triangle in general scalene. The vague might be defined as that to which the principle of contradiction does not apply. For it is false neither that an animal (in a vague sense) is male, nor that an animal is female.

Il PTE non si applica al generale, mentre il PNC non si applica al vago. Lane attribuisce al Peirce logico di questi anni un distinzione tra termini proposizionali determinati (o singolari) e termini proposizionali indeterminati, a loro volta distinguibili in due classi: termini generali e termini vaghi (che Lane chiama indefiniti). Mentre si ricorre usualmente ad una lettera per esprimere in notazione logica i termini determinati, per rendere formalmente i termini generali ed i termini vaghi si ricorre oggi rispettivamente al quantificatore universale (“tutti gli X”) ed al quantificatore esistenziale (“qualche X”). Lane ritiene che il PTE usato da Peirce si differenzi da quello che si utilizza al giorno d’oggi (della forma p V ⌐p), e che esso vada inteso nei termini di un principio che riguarda solo soggetti individuali; cioè per ogni termine individuale S e per ogni predicato P, la proposizione “S è P o S non è P” è vera. Tale principio non si applica al generale perché “it is not the case, with regard to every predicate “P” and every general subject-term “S”, that “S is P or S is not-P” is true; sometimes such propositions are false”, come ad esempio si osserva nel caso della disgiunzione “tutti i neri vivono in Africa o tutti i neri non vivono in Africa”.

Allo stesso modo, il PNC di Peirce si applicherebbe solo a soggetti definiti, e quindi se S è un termine definito, allora “S è P” e “S non è P” non sono entrambe vere. Il PNC non si applica ai termini vaghi perché “it is not the case, with regard to every predicate “P” and every indefinite subject-term “S”, that “S is P and S is not-P” is false”; qualche volta, infatti, tali proposizioni sono vere, come nel caso di “qualche uomo è calvo e qualche uomo non è calvo”.

Questo stesso discorso lo si può poi applicare alle preposizioni modali; Peirce tende infatti ad associare esplicitamente generalità e necessità, attributi specifici della terza categoria, così come vaghezza e possibilità, attributi specifici della prima categoria. Dobbiamo di conseguenza distinguere con attenzione i casi nei quali un principio logico non si applichi ed i casi nei quali invece esso si applica ma risulta però falso.

[…] I do not say that the Principle of Contradiction is false of Indefinites. It could not be so without applying to them which is precisely what I deny of it. An argument against what I say, namely, that the Principle of Contradiction does not apply to “A man” because “A man is tall” and “A man is not tall”, can only amount to saying that that man that is tall is not, while tall, not tall. That is true; and that is what I mean by refusing to say that the Principle of Contradiction is false of “A man” but when it is said of that man that is tall, then he is not not-tall, this is said of the existing man, which is not indefinite, but is, on the contrary, a certain man and no other (MS 641:24 2/3).

Di conseguenza per Peirce le proposizioni generali esprimenti necessità non sono né vere né false, ad esse il PTE semplicemente non si applica. Nella visione peirceana, il PTE ed il PNC si applicano solo a quelle che oggi potermmo definire come proposizioni non modali concernenti individui definiti. Solo per esse il PTE ed il PNC devono essere entrambi considerati come sempre applicabili. Applicabili ma non assolutamente veri: esistono infatti per Peirce casi particolari per i quali il suddetti principi risultano applicabili e però falsi. Da qui la necessità di sviluppare una logica a tre valori proprio per rappresentare anche quei casi nei quali il PTE ed il PNC si possono applicare risultando però falsati:

Triadic logic is that logic which, though not rejecting entirely the principle of Excluded Middle, nevertheless recognizes that every proposition, S is P, is either true, or false, or else S has a lower mode of being such that it can neither be determinately P, nor determinately not-P, but is at the limit between P and not P (MS 339).3

Ma quali sono questi casi dove si richiede un “lower mode of being at the limit” per i quali i principi di PNC e PTE risultano essere falsi? Questi casi sono i casi nei quali si assiste a delle rotture di continuità. Una rottura si ha quando una discontinuità topica singolare (cioè una discontinuità relativa) marca un sistema interrompendone così l’omogeneità e la continuità.

Riprendendo l’esempio iniziale, il sopraggiungere del decesso divide effettivamente il continuo del tempo in due parti distinguibili e determinate, la vita precedente e lo stato di morte successivo. Gli elementi in gioco sono però tre, non due. Tra i due stati determinati esiste infatti un confine. Una caratteristica fondamentale del modello peirceano è che tali confini non occupano una regione intermedia dotata di area specificabile (o durata) tra i due stati che dividono, quanto piuttosto una regione infinitesimale che coincide con il limite del loro rapporto. La nozione di infinitesimo gioca qui un ruolo fondamentale. Peirce, seguendo le orme del padre, ritiene infatti, di contro alla maggioranza dei matematici del tempo, che il concetto di infinitesimo non involve alcuna difficoltà o contraddizone logica: ”the illumination of the subject by a strict notation for the logic of relatives had show me clearly and evidently that the idea of an infinitesimal involves no cotradiction” (CP 6.113). Un infinitesimo è semplicemente una quantità positiva più piccola di ogni quantità specificabile.4 Mentre la continuità analitica cantoriana costruisce il proprio modello sui punti, la continuità triadica periceana si basa invece sugli infinitesimi. La differenza più rilevante è che gli infinitesimi, di contro ai punti individuali, sono perfettamente definiti (sia logicamente che matematicamente) pur essendo indeterminati:5

Se esaminiamo il comportamento di una curva al luogo x ed al luogo x+dx, x+dx non è allora un punto nel senso stretto del termine perchè due punti devono avere una distanza assegnabile. Dal momento che gli infinitesimi non sono neppure delle grandezze quanto piuttosto delle variabili, allo stesso modo x+dx non è un punto ma uno pseudo-punto variabile. Il punto x e lo pseudo-punto x+dx non sono infatti né separati né identici l’uno con l’altro, ma piuttosto si fondono l’uno dentro l’altro.6

Gli infinitesimi esprimo infatti contemporaneamente una identità ed una differenza. In matematica, al punto limite tra una curva e la sua tangente si ha che il punto di contatto della tangente con la curva ed il punto di contatto della curva con la tangente non sono più distinguibili. In termini leibniziani essi non sono discernibili. La loro distanza è infatti infinitesima, non misurabile, e pertanto i due punti iniziali devono essere pensati come se al limite essi si fondessero uno con l’altro. Questo è un punto centrale perchè per Peirce ogni rottura della continuità provoca un rapporto di opposizione tra un primo (il continuo precedente) ed un secondo (la discontinuità relativa) mediante un limite infinitesimale situato tra i due termini. Come tra la curva e la tangente, al limite si ha perciò una singolarità oggettivamente indeterminata. Ogni singolare è un individuo, ogni individuo è definito. Per indeterminata si intende qui allora una individualità (il punto tra la tangente e la curva) che possiede un “lower mode of being” tale per cui essa è definita (per cui si applica anche il PNC), senza per questo essere determinata.7 Nè determinatamente curva, nè determinatamente tangente. Vediamo ora come si applica quanto abbiamo appena detto alla luce dell’esempio della macchia di inchiostro che Peirce riporta come introduzione al problema del calcolo tricotomico:

Thus a blot is made in the sheet. Then every point of the sheet is unblackened or is blackened. But there are points on the boundary line, and those points are insusceptible of being unblackened or being blackened, since these predicates refer to the area about S and a line has no area about any point of it (MS 339).

grafico 1


Una macchia di inchiostro viene fatta cadere su un foglio bianco. Otteniamo due regioni determinate. Abbiamo così punti completamente neri (P1) e punti completamente bianchi (P3). Quello che Peirce trova interessante sono però i punti sulla linea di confine situata tra il bianco ed il nero (P2). Di che colore sono infatti tali punti? La risposta di Peirce è che i punti sul confine sono al limite tra bianco e nero: né completamente bianchi, né completamente neri e contemporaneamente sia bianchi che neri. Essi occupano un regione di dimensione infinitesimale, più piccola di ogni area positiva assegnabile, al limite tra il bianco ed il nero. Il foglio è considerato come una superfice continua originaria, una primità. Su di essa viene marcata una secondità, la macchia nera di inchiostro. La macchia è relativamente discontinua rispetto alla superfice bianca originaria; è in una relazione di opposizione tra un primo ed un secondo. Essa tuttavia è a sua volta essenzialmente continua esattamente come la superfice con la quale è in rapporto. Entrambe le superfici sono dunque parti continue in rapporto. Esattamente come prima in matematica, laddove la proprietà aristotelica asseriva che parti di un continuo hanno il loro limite in comune, anche qui il confine tra bianco e nero deve essere considerato in comune; è la sovrapposizione contemporanea dei due stati, l’articolazione della loro differenza. Questo significa che i punti sulla linea di confine sono sia bainchi che neri, ma né pienamente bianchi, né pienamente neri. Ovviamente questa immagine è solo un’icona di un problema logico; basta sostituire bianco con “vero” e nero con “falso”. La logica tricotomica di Peirce, accanto ai due valori classici di “vero” e “falso”, prevede un terzo valore “L” proprio per esprimere stati di cose ad un punto limite, cioè discontinuità topologiche singolari. Come i tradizionali sistemi tricotomici inclusono un terzo valore per includere predicati vaghi nel sistema, così il calcolo di Peirce include il valore L per includere casi particolari di indeterminazione al limite. Questo valore viene assegnato a questi stati perchè, secondo la visione peirceana, le due asserzioni concernenti lo stato di cose al limite: “il confine è nero” e “il confine è bianco”, non sono né vere né false. Queste due asserzioni sono proposizioni non modali concernenti stati di cose singolari e definiti (P2). Pertanto, secondo quanto prima visto, ad esse si applicano sia il PNC sia il PTE, i quali però, data la non piena determinazione di (P2) risultano qui falsi. I punti sul confine sono sia bianci che neri (violando il PNC) ed è vero che i punti sul confine non sono né interamente bianchi né interamente neri (violando il PTE). In breve, il confine si pone come un caso evidente di violazione del principio di bivalenza secondo il quale una proposizione concernente uno stato di cose è vera o falsa. Il calcolo tricotomico di Peirce non intende eliminare due fondamentali principi logici tout-court, quanto piuttosto prevede di estendere la visione classica per poter includere anche entità oggettivamente indeterminate quali quelle che si incontrano quando consideriamo stati di cose posti al limite in un sistema veramente continuo. Il principio di bivalenza è dunque generalmente valido per asserzioni concerneti stati di cose; con la rilevante eccezione di asserzioni concernenti stai di cose al limite in sistemi continui. In un sistema dove compaiono solo termini discreti, o dove di proposito si vuole utilizzare un sitema formale completamente e perfettamente definito, il valore L non viene semplicemente assegnato e la logica classica è completamente valida. Anche i sistemi continui secondo il modello analitio cantoriano hanno la loro utilità ed interesse. La logica a continui valori di verità di Łukasiewicz, ad esempio, che considera i propri valori di verità in corrispondenza biunivoca con i numeri reali posti nell’intervallo tra 0 e 1, può certo risultare utile per certe questioni pratiche. Quello che Peirce avrebbe obbiettato è che ancorando tali valori di verità a ad un sistema numerico, si può al massimo rappresentare un sistema pseudo-continuo, ma non un sistema veramente continuo, come ad esempio una serie temporale. Per Peirce il tempo rappresenta uno dei modelli più vicini di continuità che possiamo direttamente esperire. Non è infatti un caso che molti esempi sia di Leibniz che di Peirce trattino di palle in movimento che giungono a riposo o del passaggio tra la vita e la morte o tra il sonno e la veglia.8 Così come il continuo spaziale della retta non è composto da punti, così il continuo temporale non è composto da istanti assolutamente individuali. Ogni istante deve essere considerato nel suo scorrere; possiamo isolare tanti punti di rottura a piacere andandoli a marcare ed ognuno di essi presenterà per Peirce le stesse caratteristiche di L: sarà cioè uno stato di cose al limite né completamente identico nè completamente diverso dall’istante che lo precede e dall’istante che lo segue. Per questo, quando andiamo a considerare passaggi al limite in sistemi temporali, applicare una prospettiva pseudo-continua risulta essere inadeguata al quadro stesso dei fenomeniche stiamo descrivendo.

Presentato dunque il quadro di riferimento del calcolo tricotomico di Peirce e la sua necessaria connessione con il tema del continuo, non rimane ora che provare a vedere se l’obiezione della vaghezza di secondo ordine svuota di senso questo calcolo così come svuota di senso le prospettive di Körner o di Halldén.9 Per prima cosa bisogna notare che in realtà, seguendo le coordinate peirceane, non si tratta qui propriamente solo di vaghezza, quanto piuttosto di un problema di indeterminazione di secondo ordine.10 I punti sul confine violano sia il PNC sia il PTE; dunque, seguendo quanto detto prima, essi sono sia generali che vaghi, o, in una parola indeterminati. Pertanto in riferimento al quadro peirceano sarebbe più opportuno parlare di indeterminatezza di ordine superiore piuttosto che di vaghezza. Cambiano i termini ed i riferimenti concettuali, non la sostanza dell’obiezione; la dinamica del passaggio da un primo livello di vaghezza/indeterminazione ad uno di secondo rimane infatti la medesima. L’obiezione dell’indeterminatezza di secondo ordine per il calcolo peirceano può essere tanto decisiva quanto l’obiezione della vaghezza di secondo ordine lo è per le altre prospettive a tre valori di verità.

A prima vista infatti, sembra che l’obiezione possa essere ripetuta anche qui. Abbiamo due regioni determinate con interposto un valore indeterminato. Di conseguenza sembra assolutamente lecito obbiettare che così facendo si pongono altri due confini: nell’esempio di prima tra bianco ed L, e tra L e nero. In realtà, al quadro teorico del cacolo tricotomico di Peirce, l’obiezione dell’indeterminazione di secondo ordine non è semplicemente pertinente. Si consideri questa citazione:

Consideriamo la lavagna pulita come una sorta di diagramma dell’originale e vaga potenzialità, o in ogni caso di un certo stadio iniziale della sua determinazione. Questa è qualcosa di più di una figura del linguaggio, poiché dopo tutto la continuità è generalità. Non ci sono punti su questa lavagna; non ci sono dimensioni in quel continuum. Traccio sulla lavagna una linea di gesso. Tale discontinuità è uno di quegli atti bruti attraverso cui l’originaria in distinzione potrebbe aver compiuto un passo verso la definizione. C’è un certo elemento di continuità in questa linea. Da dove proviene? Esso non è altro che l’originaria continuità della lavagna che rende continua ogni cosa scritta su di essa. La discontinuità può perciò venire prodotta su quella lavagna unicamente dalla reazione tra le due superfici continue nelle quali viene separata, la superficie bianca e al superficie nera. […] Ma il confine tra il bianco e il nero non è né nero, né bianco, né nessuno dei due, né tutti e due. Esso è l’appaiamento (pairedness) tra i due: è per il bianco l’attiva secondità del nero, per il nero l’attiva secondità del bianco (CP 6.203).

Questo esempio di quanche anno precedente a quello che troviamo nel taccuino logico. In esso troviamo in modo chiaro due punti notevoli. Primo, che tutte le superfici in gioco sono continue. Secondo, che il confine si ha solo quando le due parti sono in rapporto attivo tra di loro. Ma cosa si intende qui per rapporto attivo? Semplicemente che il confine così come lo abbiamo descritto emerge solo in quanto media e permette il rapporto delle due superfici determinate. Se perciò andiamo a considerare una ulteriore divisione tra uno dei due valori determinati ed il valore determinato, il confine, senza l’altro estremo in rapporto, semplicemente scompare. Esso esite solo nel tra- infinitesimale che possiamo considerare sul limite tra il bianco ed il nero. Di per sè il confine non esiste, non è attuale. Esattamente come la terza categoria funge da mediazione tra un primo ed un secondo permettendone il rapporto, anche qui il confine funge da terzo termine di mediazione situato nel mezzo tra i due estremi. Ma il terzo termine è ciò che è solo in quanto vi sono un primo ed un secondo da mediare; di per sé, senza un Uno ed un Due, esso non è nemmeno reale. Rimuovendo perciò un estremo, con ciò rimuoviamo anche il confine.

Se andiamo idelamente a separare le due macchie di colore, il punto che tra esse è situato nel confine si sdoppia; una parte andrà con la macchia nera, una parte con la macchia bianca; il punto indeterminato P2 scompare. Scompare come tale, ma in realtà si sdoppia in due; una parte andrà con il nero diventando determinatamente nera, una parte andrà con il bianco diventando determinatamente bianca. Se successivamente andiamo a riavvicinare a contatto le due superfici, automaticamente si crea il confine con le stesse proprietà che esso possedeva prima della divisione (cfr. NEM 4:342-3). Questa impostazione è direttamente contraria a quanto previsto dalla prospettiva cantoriana del continuo la quale osserva invece il teorema del taglio di Dedekind. Secondo questo teorema se dividiamo un segmento AB in due, il punto di taglio t, in quanto individualità attuale, discreta, determinata ed indivisibile, si unirà ad uno solo dei due estremi. La differenza è dovuta la fatto che, di nuovo, in un continuo peirceano esitono solo posti a partire dai quali possiamo identificare dei punti, i quali prima dell’operazione di taglio sono solo potenziali e reali, mentre nella prospettiva cantoriana i punti sono sempre considerati come attuali ed esistenti. Non solo per Peirce il ricorso ad una teoria sinechistica ed al concetto di infinitesimo non provoca alcuna contraddizione a livello logico, ma, cosa ancora più interessante, è invece il modello di continuo cantoriano a condurre a degli evidenti paradossi come ad esempio quelli di Zenone:

All the arguments of Zeno depend upon that a continuum has ultimate parts. But a continuum is precisely that, every part of which has parts, in the same sense. Hence, he makes out his contradictions only by making a self-contradictory supposition. In ordinary and mathematical language, we allow ourselves to speak of such parts -points- and whenever we are led into contradiction thereby, we have simply to express ourselves more accurately to resolve the difficulty (CP 5.335).

I paradossi della forma di “Achille e la tartaruga” si producono proprio perchè supponiamo una infinità di punti attualmente esitenti al posto di un originale continuo potenziale. Continuo che può sempre essere marcato ed interrotto, nel quale caso le regole classiche della logica si mantengono generalmente valide con l’eccezione di quando andiamo a considerari stati di cose al limite. Per tali stati si rende necessario a livello logico il ricorso ad un terzo valore di verità come L, il quale esprima proprio i casi dove gli usuali principi logici vengono falsificati a causa dell’indeterminazione intrinseca possieduta da stati di grandezza infinitesimale.

In conclusione, la generale dinamica della vaghezza/indeterminazione di secondo ordine presenta almeno un caso notevole nel quale non può essere applicata. Questo caso coincide con il calcolo tricotomico elaborato da Peirce per processare casi particolari di rotture di continuità. La differenza rispetto ad altre prospettive tricotomiche è data dalla congiunzione del principio sinechista, il quale implica il ricorso ad una base teorica di tipo triadico ed al concetto di intervallo di grandezza infinitesimale. Questo originale quadro concettuale consente di produrre un calcolo logico a tre valori funzionalmente completo capace al contempo di evitare l’insidia rappresentata dalla classica obiezione della vaghezza di secondo ordine.

Dr. Marco Annoni

Prof. de Storia della scienza, Programa de Doctorado, Università di Pisa.



Bibliografia

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1 Fisch e Turquette 1966: 79.

2 Parker 1992: 72.
3 Ed ancora, in una lettera scritta solo tre giorni dopo ed inviata a William James : “I have long felt that is a serious defect in existing logic that it takes no heed of the limit between two realm. I do not say that the Principle of Excluded middle is downright false; but I do say that in every field of thought whatsoever there is an indeterminate ground between positive assertion and positive negation which is just as Real as they “ (NEM 3:851).
4 Parker 1992: 92.
5 Per una rigorosa definizione di infinitesimo nell’analisi non standard si veda Robinson 1966.
6 Breger 1992: 79. Questa citazione compare in Paolucci 2005; in questo saggio, rispetto al quale la presenta relazione è profodamente indebitata, si approfondisce la questione della generatività della continuità peirceana e la sua possibile modellizzazione attraverso la teoria matematica delle catastrofi.
7 Distinguo la mia prospettiva in questo punto da quello utilizzata da Robert Lane. Per Lane infatti il PNC risulta essere vero per stati al limite; tuttavia, a mio parere, sia il quadro teorico che l’evidenza testuale (cfr. NEM III: 747 e CP 6.126) indicano con chiarezza che il PNC deve essere considerato come applicabile ma però falso per tali casi.
8 Sul tema dei rapporti tra continuità e vagehzza nel pensiero di Peirce e Leibniz cfr.Fabbrichesi e Leoni 2005.
9 Queste sono le due prospettive citate da Williamson (1994: 111-113) come casi notevoli di logiche triadiche per le quali il problema della vaghezza di ordine superiore risulta inveitabile.
10 Sulla prospettiva logica di Peirce per quanto concerne la vaghezza, e sui problemi derivanti dall’assimilazione tra vaghezza e generalità come forme di indeterminazione, cfr. Williamson 1994: 46-52.

Revista Observaciones Filosóficas - Nº 4 / 2007


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